Quando Claudio Monteverdi nasce a Cremona, nel 1567, primo figlio di una famiglia di farmacisti, chi può immaginare di trovarsi davanti il più importante musicista a cavallo tra il tardo Cinquecento e il primo Seicento? No, nessuna tra le persone che fanno capolino attorno alla culla può ancora saperlo, ma il piccolo Monteverdi diventerà l’ultimo grande polifonista del Rinascimento e insieme il primo geniale interprete della monodia accompagnata. Un genio capace di farsi ponte tra due epoche. Più di un rivoluzionario, più di un innovatore. Un anticipatore.
Che, come tale, brucia subito le tappe. Istruito sin da piccolo dal famoso Marcantonio Ingegneri, Claudio mostra immediatamente un talento fuori dal comune, iniziando a comporre prestissimo: a 15 anni, il suo primo libro di mottetti a tre voci; a 17, un volume di canzonette a tre voci; a 20 anni il primo dei nove libri di madrigali che produrrà in vita.
A 25 anni diventa violista alla corte del Duca di Mantova e qui, con umiltà e dedizione assoluta, impara il mestiere di musico di corte. L’humus culturale dentro e attorno alla corte è inebriante: Monteverdi conosce Giaches de Wert, le opere di poeti e artisti come Torquato Tasso e Giovanni Battista Guarini, ma anche i virtuosi cantanti di Ferrara. E incontra l’amore: sposa la cantante di corte Claudia Cattaneo, figlia del suo collega nell’orchestra d’archi.
Circondato di visionari e virtuosi, il maestro affina lo stile per cui passerà alla storia: spiazzante, estroverso, espressivo, teatrale. Una polifonia che contravviene alle regole vigenti del contrappunto e si arricchisce di inedite progressioni armoniche capaci di rendere in maniera magistrale gli “affetti”, cioè le emozioni, presenti nei testi. La parola che prende vita in musica come mai prima.
Se il suo tocco è ormai inconfondibile, la fama incontenibile. È lui a firmare i madrigali suonati nel 1598 durante la visita a Ferrara di Margherita d’Austria, uno tra gli eventi mondani più seguiti all’epoca. D’altro canto, Vincenzo I Gonzaga adora la sua musica, tanto da volerlo con sé per vent’anni, a corte e in viaggio, in pace e… in guerra. Quando il Duca parte per combattere i Turchi in Ungheria, nel 1595, Monteverdi è al suo fianco: non per tattica o strategia bellica, ma per impressionare con la sua virtù la nobiltà alleata e gli infedeli. Missione compiuta.
Sebbene la stima del Duca sia sconfinata, l’onorario che Monteverdi riceve non è abbastanza. Non sentendosi apprezzato a dovere, e più ambizioso che mai, fa di tutto per ottenere un prestigioso e ben retribuito incarico come maestro di cappella nella basilica di San Marco a Venezia. Dovrà arricchire la biblioteca musicale, ingaggiare nuovi musicisti, scrivere musica per la basilica e per le feste veneziane. Ma, soprattutto, potrà dedicarsi anima e corpo alla musica.
Un impegno che dà presto i suoi frutti, tra applausi e critiche. Le sue partiture, stravolte nella forma e nella struttura, fanno indignare i più tradizionalisti: non solo il bolognese Artusi definisce la sua musica “aspra” e “poco piacevole all’udito”, ma anche gli stessi cantori di San Marco tentano di danneggiarlo con denunce anonime, fortunatamente ignorate dagli Inquisitori. Lui però non dà peso alle polemiche e risponde con dei nuovi madrigali che diventano subito delle hit.
Il segreto del suo successo? È presto detto: la sua musica è la prima ad allontanarsi dalle fredde atmosfere cinquecentesche per addentrarsi tra i chiaroscuri dell’animo umano, in una continua ricerca della “verità di espressione”, cioè della perfetta unione tra musica e parola.
In questo clima intellettuale prende forma L’Orfeo, la sua prima opera teatrale e tra i primissimi esempi di melodramma. L’accoglienza è ottima a tutti i livelli. Una volta la sua stessa musica lo trascina così tanto da fargli dimenticare di dirigere l’orchestra durante una performance. Tornato in sé e voltatosi per chiedere scusa, è travolto dal fragoroso applauso dei musicisti, commossi di fronte a tanta passione e l’intensità.
Passa poco tempo dal debutto dell’Orfeo, e la sua amata moglie muore. È un colpo durissimo, da cui Monteverdi fatica a risollevarsi. Nel 1632 decide di prendere i voti e traspone la sua nuova dimensione introversa e riflessiva in alcune delle migliori musiche sacre per la Chiesa cattolica romana mai scritte, come la Selva morale e spirituale, del 1641, considerata una sintesi di quasi trent’anni di attività presso la Cappella di San Marco a Venezia.
Ormai è un maestro nel dipingere l’animo umano e lo dimostra più volte: nell’opera Il ritorno di Ulisse in patria, dona a ogni personaggio una musica adatta al suo rango e al suo carattere, sia esso umano o divino, mentre l’Incoronazione di Poppea è la prima opera nella storia della musica a narrare eventi di personaggi in carne ed ossa, con le loro debolezze, passioni e difetti.
È l’ultima opera del genio. Stanco e anziano, pochi mesi dopo la prima recita dell’Incoronazione, Monteverdi muore dopo una breve malattia. La notizia colpisce con il fragore di una cannonata e a salutarlo per l’ultima volta arrivano tutti, dai nobili, al clero, al popolo: una folla mai vista al funerale di un musicista. Decine e decine di strumentisti e cantori si radunano fuori dalla basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia e danno vita a uno dei funerali più toccanti della storia, onorando così, con le note, chi attraverso la musica ha saputo comunicare tutti i tipi di esperienze ed emozioni umane.